mercoledì 23 marzo 2022

Lo sbarco alleato e il cicloturismo, una racconto per il territorio

A guardare le foto storiche che illustrano lo sbarco alleato a Gela si ha un senso di confusione. Non te la spieghi subito, devi cercare di mettere a fuoco la sensazione, capire cosa non quadra tra la realtà che oggi ti circonda e quelle vecchie foto sbiadite. E dire che i particolari ci sono tutti: la pianura a nord, il mare alle spalle, il sole cocente di un giorno del lontano luglio del 1943, il cielo che brilla di una luce accecante. Trovi tracce sicure, ingegneristicamente parlando sono segni inequivocabili: l'edificio della vecchia dogana, il lungo braccio in cemento armato del pontile sbarcatoio, le dune ricoperte dai ciuffi sparsi di macchia mediterranea. Eppure qualcosa non torna. A strizzare gli occhi su quelle foto ti accorgi che dopo oltre settant'anni le distanze e le proporzioni sono diverse. Così, piedi piantati oltre la vecchia e ormai solo immaginata porta Caltagirone, ti affacci sulla via Omero nella città moderna, trafficata ed edificata. La stazione ferroviaria è ancora lì, spenta e senza binari, accarezzata pericolosamente da un cavalcavia gigante che sfiora le finestre del primo piano, il simbolo violento di una mobilità che ha sostituito il treno, pubblico e collettivo, con l'auto, privata ed individuale. Guardi a lungo da questo punto di osservazione, che una volta aveva il nome pratico di piazza Mercato, poi degradata o, se si vuole, elevata, a piazza Enrico Mattei, per gloria e memoria di chi portò l'industria in città e ironia della sorte spense il passare dei treni dalla vecchia stazione per spostare la linea ancora più a nord. Osservi la piana che si stende verso i monti Erei, le colline che si muovono dolci in salita e cingono in un abbraccio gli antichi Campi Geloi, Punti gli occhi e torni alla foto, adesso quel senso di confusione svanisce. Il fumo dei bombardamenti, che nelle foto sembra essere lontano, capisci che allora era vicino al paese, questa era la Gela del 1943, un paese. Oggi, lì dove cadevano le bombe non vi è terreno libero, ma un'intera città che è cresciuta in fretta. La scoperta dello sbarco e dei suoi luoghi, nel cambiare del tempo, richiede lentezza e capacità di osservare, di ritrovare quei pochi angoli rimasti intatti: di fianco ad una gioielleria che mostra oro e orologi; tra un balcone rimesso a nuovo ed un paio di lenzuola stese al sole della primavera meridionale. Le schegge di una granata a scalfire la facciata oggi rifatta di un antico palazzo ed il pensiero al mare che si riempiva, in quella notte del luglio 1943, di mezzi da sbarco. Si narra, ma sarà poi narrazione veritiera? non ci importa poi tanto, perchè non è la precisione storica che interessa in questo contesto, ma la capacità di incuriosire. Si narra, dicevamo, che quando il Generale Patton, al comando della forze alleate, in quel mattino del luglio del 1943 arrivò sulla spianata rovente della piazza Umberto I a Gela, tutto sembrava concluso, o, se si vuole, iniziato, visto che era la porta d'ingresso per la liberazione dal nazifascimo. Forse Patton alzò la mano per coprire gli occhi dal sole, forse bevve un sorso d'acqua dalla borraccia, era rilassato il Generale quando lo scoppio di alcune granate squarciò il silenzio vicino a lui. Panico alleato, Gela non è ancora liberata. Cosa accadde? La narrazione parla di tre ragazzi che dal campanile giallo di tufo della matrice fecero esplodere degli ordigni per poi darsi alla fuga e mettere nel panico l'invincibile armata alleata. Non è la fonte che interessa, ma il racconto, la lentezza delle parole ed il suo fascino. Come il fascino di una bici poggiata all'ombra di quel tufo giallo che rimane intatto quasi un secolo dopo. Non scegli di ripercorrere i luoghi dello sbarco in auto, non li capiresti, ti mancherebbe qualcosa. Perderesti il verde del grano in primavera, che allora, in quel luglio, erano stoppie gialle d'estate. Non vedresti la linea costiera delle casematte, termine più allegro del cupo bunker. Smarriresti il fascino del guado sul fiume Gela e la domanda sul perchè il Castelluccio fu anche base a supporto dei soldati italiani. E le strade, quali strade oggi sono rimaste? Non puoi saperlo se non le percorri dal centro città alla Piana, se non lasci scorrere sotto le pedivelle lente l'asfalto scrostato delle tracce lasciate dell'opera del Consorzio di Bonifica, oggi in gestione alla Provincia. Isolate vie che sembrano ciclabili che spaccano in due la grande pianura del sud siculo. Avrai tempo per pensare in un percorso lento che viaggia tra la storia e la natura, la città e la campagna. Pensare e battere piano sui pedali, fino a costeggiare la linea della pista di atterraggio di Gela, con il bunker antischeggia a fare da custode. Pista che le vecchie foto aeree del 1966 riportano ancora e che oggi solo in bici possiamo intravedere. Il cicloturismo come racconto ed il cicloturista che diventa l'ascoltatore ed il narratore della stessa storia. 
Se ci si chiede perchè un ciclotour sui luoghi dello sbarco, l'inizio di una risposta possiamo accennarlo partendo da questo, dalla capacità di raccontare, di iniziare a narrare. 
Un gesto semplice, come prendere una bici e andare.
Ci vediamo in bici sulle tracce dello sbarco alleato a Gela.

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